Traini: 'Meglio Cappelli e Lugaresi di Gaucci. Rimini, che amore'. Preso a 35 milioni, rivenduto a 300
'Luciano al lunedì mi convocava a Roma, al telefono mi passava Andreotti. Massimino in campo sventolava assegni: feci tripletta'

Pasquale Traini è uno di noi. Nel senso che è un riminese pur se adottato visto che – recita la sua carta di identità – è nato a Nereto, in Abruzzo, nel 1961. Dall’80, infatti, è sotto l’arco d’Augusto, ha vestito per due stagioni la maglia biancorossa in serie B, qui nell’82 si è sposato civilmente con Gioia Laghi che ancora non era maggiorenne (la cerimonia in chiesa avverrà qualche mese dopo, a 18 anni compiuti) e qui ha posto la sua residenza pur viaggiando da nord a sud per fare il mestiere che voleva fin da bambino: il calciatore.
La carriera gli è riuscita bene: in vent'anni cinque promozioni, in tutte le categorie: serie D, C1, C2 (due), B (saltata poi a tavolino, come vedrete) senza dimenticare la Under 21 di mister Valcareggi e la Nazionale Militare . “Mi manca solo lo scudetto” esclama serafico Pasquale al tavolo del Bar Gelateria Nuovo Fiore di via Pascoli, il locale che la sua famiglia gestisce da sempre e in cui lavora anche lui da quando ha rotto i ponti col suo mondo. Peccato, perché Pasquale ha esperienza, conosce il calcio, ha occhio, è una persona seria. Se non un ruolo di campo avrebbe potuto ricoprirne uno a livello dirigenziale con ottimi risultati. E invece…
“…E invece col calcio ho chiuso. Ho assaggiato tutti i ruoli. Direttore sportivo prima e di allenatore poi a Castel San Pietro, nello Spezia attraverso Mandorlini sono diventato team manager e responsabile del settore giovanile, poi vicende famigliari mi hanno costretto ad interrompere il rapporto col mio mondo che non ho più ripreso – racconta – . Dimenticavo il Torino molto tempo dopo: ho fatto l’osservatore. Gira e rigira, ho capito di non avere più la passione, al bivio tra famiglia e il calcio ho scelto la prima e non sono affatto pentito. E poi il calcio ha perso ai miei occhi il fascino che aveva, si è per così dire industrializzato: si gioca tutti i giorni, è venuto a mancare il senso di appartenenza. Si respira un’altra aria, non c’è quella attesa per la partita rispetto ai miei tempi. Seguo il calcio a tutti i livelli, con un occhio a mio figlio Michael quest’anno al Città di Castello in serie D, ma in maniera distaccata”.
Traini, come venne a Rimini?
“Al Giulianova a 17 anni giocai da titolare in C2 con 4 reti in 19 partite, l’anno dopo vinsi il campionato segnando nove volte in 33 partite. Mio partner d’attacco era Ciccotelli, il mister Corelli. Il Rimini? Io so solo che a Riccione, dove vincemmo 1-0, era in tribuna Firmino Pederiva. Penso fossi seguito da tempo dal club biancorosso. La relazione del mister fu convincente, la società mi acquistò. Il ds era Renzo Corni”. Una operazione che fruttò tanto alle casse biancorosse: si racconta dell’acquisto del bomber per 35 milioni di lire e della sua cessione per circa 300.
Traini, Rimini è stato il suo trampolino di lancio.
“Due campionati di B con Maurizio Bruno mister, uno fortunato, l’altro decisamente no con la retrocessione immeritata a 36 punti. Era il Rimini di Saltutti e Chiarugi, Petrovic, Buccilli, Bilardi. Io segnai otto reti complessivamente di cui cinque nella prima stagione, tutte fino a dicembre quando poi mi trovai inspiegabilmente relegato ad un ruolo di comprimario. Ricordo il primo anno il gol alla Lazio in casa. Ricordo lo stadio con sette-ottomila spettatori. Era calcio vero quello”.
Che ricordo ha di mister Bruno e del presidente Cappelli?
“Mister Bruno era una persona eccezionale, faceva gruppo, preparava bene le partite. Avrebbe meritato una carriera migliore. Mi teneva in considerazione, ero un ventenne e non aveva paura a farmi giocare. Cappelli era come un capofamiglia, perché il Rimini era una grande famiglia, aveva spessore morale e come lui gli altri dirigenti, tra tutti Montesi e Vernocchi, il massaggiatore Lamberto Soci. Dino Cappelli ed Edmeo Lugaresi sono stati i miei presidenti preferiti perché erano genuini, galantuomini, interpretavano i rapporti personali e il calcio alla mia stessa maniera, avevano una gran passione”.
Diversamente da Luciano Gaucci…
“Era il presidente del Perugia che conquistò sul campo la serie B nel 92-93, alla mia seconda stagione col Grifone con 11 reti proprio come nella prima. Avevo un bel rapporto con tanto che al lunedì spesso, dopo la telefonata all’alba, mi convocava a Roma nei suoi uffici per parlare della squadra. Voleva che con me ci fosse anche Gioia che poi il suo autista accompagnava per il centro della Capitale, e allora partivamo con tutta la famiglia di buon’ora. Nel suo ufficio capitava che telefonasse ad Andreotti, al cardinal Martini, a Matarrese. Era un personaggio affascinante, ma vedeva il calcio in maniera opposta al mio”.
La Caf tolse al Perugia a tavolino la serie cadetta squalificando per tre anni proprio Lucianone…
“Salì in serie cadetta l’Acireale che sul neutro di Foggia battemmo 2-1 nello spareggio promozione per la B. Io firmai la doppietta in uno stadio in tripudio per tre quarti di nostri tifosi. Sul campo abbiamo vinto noi e tanto mi basta, quella fu una sentenza politica”.
Il mister di quel Perugia era Walter Novellino. Lei ha avuto fior di tecnici: Angelillo ad Arezzo, Buffoni, Bigon e Bolchi a Cesena, Reja a Pescara, Materazzi a Messina oltre a Bruno ed altri. Quale il migliore?
“Tutti mi hanno dato dato e a tutti sono rimasto legato seppure in maniera diversa. Angelillo faceva gruppo come Bruno, ma era un carattere caldo: si accendeva con poco. Si faceva voler bene. Era di una superstizione maniacale. Gli fecero notare che per due volte fece entrare un giocatore (era Marmaglio, ndr) ed entrambe le volte perdemmo. Quindi quel mio compagno finì in tribuna fisso, a prescindere. E fu ceduto al mercato di riparazione. All’inizio fu difficile farmi spazio, poi divenni titolare fisso. Ricordo che a Campobasso il mister mi fece giocare titolare dopo un po’ di tempo e segnai una doppietta: da allora non uscii più dall’undici. Reja era un seguace di Galeone, responsabilizzava molto i giocatori, era soprattutto un gestore. Sotto il profilo tattico e tecnico, Novellino aveva idee nuove, era un vincente, aveva voglia di fare carriera e quindi molto ti dava ma anche ti toglieva nel senso che non si faceva scrupoli perché il suo interesse veniva magari prima di quello del calciatore. Vinsi con Novellino successivamente anche il campionato di C2 a Gualdo”.
Ci sono gol che ricorda con particolare piacere?
“Tanti… Con l’Arezzo realizzai il 2-2 in dieci al Milan, col Rimini ebbi l’ebbrezza di andare in rete a San Siro ma perdemmo 3-1. Il Milan mi portava fortuna: col Cesena lo battei al Manuzzi 1-0 con gol di Holqvist e per questo il Milan è diventata nel tempo la mia squadra del cuore. Ma il top dei top fu la tripletta in Catania-Taranto al Cibali, 12 maggio 1985 e non solo per le reti…”.
Cioè che successe?
“Al mio secondo gol, con il Taranto in vantaggio 1-2, comparve dietro la porta il presidente del Catania Angelo Massimino che cominciò a sventolare un blocchetto degli assegni urlando: ‘Traiiinnniiii, quanto vuoi per fermarti?’ Una scena divertente. Il Catania pareggiò con Ermini, ma io non mi fermai affatto e segnai ancora, poi Pedrinho fissò il 3-3. Per me non fu semplice nel dopo partita”.
Spesso e volentieri in doppia cifra in serie B, in serie A solo un gol, campionato 1988-1989. Perché?
“Lo realizzai a Bergamo contro l’Atalanta, però fu ko per 3-1. Io in quella stagione ero l’uomo della Coppa Italia: andai a bersaglio sei volte. Nei due campionati giocai 16 e 29 partite raggiungendo due salvezze con Bigon. Erano i tempi di Rizzitelli, Holqvist, Agostini, Lorenzo, Aselli, Dukic: c’era una bella concorrenza. Giocavo soprattutto da seconda punta a Cesena, ma ho ricoperto tutti i ruoli là davanti, anche quello di esterno. Ho fatto la mia parte, giocavo molto per la squadra. Ricordo con grande affetto Di Bartolomei nella prima stagione. Veniva dal Milan e fece molto bene segnando gol preziosi su punizione e rigori. Era aperto con chi era in sintonia con lui, una persona solare, simpatica, intelligente con mille interessi. Uno choc per tutti il suicidio. Mia moglie è ancora in contatto con la sua”.
Ci sarà una partita che le è rimasta sullo stomaco…
“La sconfitta col Napoli per 1-0 al Manuzzi. Entrai ad un quarto d’ora dalla fine e al 90 ci fu assegnato un rigore: si erano defilati un po’ tutti, lo calciai io: palla sopra la traversa. E poi la finale playoff a Pescara contro l Avellino per la serie B nel 1995: perdemmo ai rigori”.
Il colpo preferito di Traini?
“Ho fatto gol in tutte le maniere, con entrambi i piedi, di testa pur non essendo tanto alto, in acrobazia. In area ero freddo. Avevo un carattere positivo all’interno dello spogliatoio: non mi lasciavo prendere dall’euforia nei momenti migliori come non mi deprimevo in quelli negativi. Questo equilibrio è stata la mia forza”.
Aveva un modello?
“No uno in particolare. Pensavo sempre a migliorarmi. Ero un attaccante eclettico, tecnico, riflessivo. Non un egoista tanto che con me sono andato in gol tutti i miei compagni di reparto, ero un gran uomo assist: non pensavo allo score, ma al bene della squadra”.
Com’era la vita in campo allora per voi attaccanti?
“Prima dell’avvento di Sacchi e della zona, per noi attaccanti era più dura, dietro si giocava per non farti segnare e poi – cosa fondamentale – c’erano giocatori di qualità. E comunque ai miei tempi i bomber arrivavano a 15 gol al massimo, adesso viaggiano sui 25-30. Restare a certi livelli per anni era complicato. Un altro calcio. Tenete conto che i più importanti calciatori non solo nazionali ma internazionali erano in Italia da metà negli anni 80 fino a buona parte degli anni Novanta. Ora conta solo la serie A, ai miei tempi anche la B era calcio vero. Ora c’è un abisso”.
La prima promozione dalla B alla A arriva nel campionato 1986- 1987. Era il Cesena di Maciste Bolchi.
“Bolchi puntava su 12, 13 giocatori. In campo andavano sempre gli stessi. Una volta Simonini era squalificato per tre turni e allora parto io titolare e faccio gol in due partite, alla terza Simonini rientra perché gli scontano una giornata e io rientro nei ranghi senza e il mister non mi dà spiegazioni. Però io non mi sono mai arrabbiato, sono rimasto al mio posto e quando sono chiamato in causa ho messo dentro molti palloni decisivi (sette gol nelle ultime dieci partite) come quello al Catania in zona Cesarini che ci regalò gli spareggi per la A. La spuntammo a San Benedetto del Tronto battendo in finale il Lecce 2-1 con gol di Bordin e Cuttone”.
Nell’89-90 con Marcello Lippi non si prese e fu ceduto. Che successe?
“Chiesi la cessione io alla società dopo quattro partite, avevo capito già dalla Coppa Italia che non era aria per il sottoscritto anche se Lugaresi, il ds Cera e Lucchi fecero con le mani e coi piedi per trattenermi. Andai anche a Milanofiori per risolvere la questione all’ultimo giorno di mercato. Lugaresi si convinse e approdai al Pescara, in serie B in extremis”.
Il gol più importante fu un altro, forse: l’incontro con sua moglie Gioia.
“Vivevo alla pensione Muccioli con altri ragazzi. Lei seguiva le vicende del Rimini, io andavo al Nuovo Fiore a prendere il caffè o il gelato. Nel giro di due anni ci siamo sposati e ad Arezzo è cominciato il nostro tour per l’Italia e nella città toscana è nata Selvaggia, la primogenita a cui hanno fatto seguito più avanti Michael e Giacomo. La nostra famiglia è sempre rimasta unita”.
Perché la cessione proprio all’Arezzo?
“Durante l’ultima stagione al Rimini disputai il torneo di Viareggio col Brescia: il ds Previdi mi acquistò (si parla di 25 milioni, ndr) girandomi all’Arezzo da cui aveva preso un bomber illustre, Tullio Gritti ora nello staff di mister Gasperini, per vincere il campionato cadetto. Mantenni le attese. Due campionati da titolare con otto e sette gol”.
Nel 1995, dopo la seconda stagione di Gualdo in serie C1, Traini ha 34 anni, ma non perde il vizio del gol.
“Dopo la stagione di C2 al Baracca Lugo con 11 gol in 33 partite, ho voglia di smettere. Invece Beppe Angelini, mio compagno di squadra al Cesena, Cancelli ed altri mi convincono a continuare e a Castel San Pietro con mister Oscar Farneti vinciamo il campionato di serie D. L’anno successivo in C2 si siede in panchina l’amico Arrigoni e si ripete il copione: al primo anno di professionismo mi chiede di darlgi una mano e alla fine è salvezza. Io segno sei gol in 28 partite. E’ il 1998, dico basta. Ho 37 anni”.
Delle cinque promozioni quale ricorda con più piacere?
“La più importante è stata quella in serie A col Cesena, ma tutte hanno avuto un loro fascino: come posso dimenticare quella dalla C2 alla C1 da sbarbatello a Giulianova oppure quella da veterano a Castel San Pietro?”
Ha rimpianti?
“No, sono soddisfatto della mia carriera anche perché per fortuna non ho mai subito infortuni gravi. Ho fatto il giocatore, realizzato il mio sogno e la mia famiglia non mi ha mai ostacolato: non fossi riuscito sarei andato a lavorare nella azienda di mio padre. Ho fatto sacrifici, ho guadagnato bene”.
Da genitore come vive la carriera di suo figlio Michael?
“Sono uno dei pochi genitori che mai si è messo di mezzo, magari si pensa il contrario, ma lui ha sempre fatto le sue scelte in autonomia ascoltando i consigli di altri più dei miei. Ha vinto campionati di serie D, uno anche col Rimini, ha segnato più di cento gol, purtroppo non ha avuto l’occasione giusta per misurarsi in un contesto professionistico anche per via di regole assurde come quelle degli under. Se la sarebbe meritata”.
Stefano Ferri
Nelle foto: 1) Pasquale Traini con mister Maurizio Bruno ai tempi di Rimini.2)Con la moglie Gioia Laghi. 3) Traini al Nuovo Fiore. 4) Duello con Riccardo Ferri.5) Traini con Luppi del Bologna6) Traini a segno contro Ferron dell'Atalanta.