Diciassette anni da precaria: il grido di dolore di una docente riminese
Tra carichi di lavoro, concorsi compressi e tutele mancanti: una testimonianza del precariato scolastico italiano
Roberta Cecchini, 54 anni, docente precaria di Storia dell’Arte con 17 anni di servizio, due lauree e quattro abilitazioni, denuncia le criticità del sistema di reclutamento scolastico dopo non aver superato la prova scritta del concorso PNRR 3. La docente riminese sottolinea la sproporzione tra la sua esperienza professionale e l’assenza di stabilizzazione, lamentando condizioni di lavoro che non riconoscono merito, continuità didattica e sacrifici personali. Contesta inoltre la rapidità con cui si svolgono i concorsi, le modalità di valutazione basate su quiz, la mancanza di tutele economiche per i precari e l’assenza di un percorso certo verso il ruolo, mentre figure con poca esperienza ottengono l’immissione in ruolo in tempi brevi.
La lettera della docente
Gentilissimi, mi chiamo Cecchini Roberta e sono un’insegnante di Storia dell’Arte, precaria. Mi permetto di condividere con voi questa mia riflessione dopo aver sostenuto (e non superato) la prova scritta del PNRR 3 il 1° dicembre 2025.
Ho 54 anni, possiedo due lauree e quattro abilitazioni. Sono in graduatoria di merito dopo aver superato il concorso 2020, sono idonea al PNRR 1 (al PNRR 2 non ho potuto partecipare perché in convalescenza dopo un importante intervento), il tutto con 17 anni di servizio da precaria.
Sono un’insegnante motivata, preparata e competente, che, malgrado le difficoltà, continua ad amare profondamente questo lavoro, senza lesinare nulla del proprio impegno.
Ogni anno i dirigenti scolastici mi affidano classi da coordinare e progetti da realizzare, perché mi ritengono un’insegnante capace e affidabile, che nonostante il suo peregrinare mette sempre al primo posto il bene dei ragazzi.
Eppure, per lo Stato, non ho diritto ad avere una cattedra. Continuo a vivere nel limbo dell’incertezza, chiedendomi cosa debba fare più di quanto abbia già fatto.
La settimana scorsa ho sostenuto la prova scritta del PNRR 3, l’ennesima prova scritta, che sapevo già di non poter superare perché il tempo per prepararla è stato realmente insufficiente. È irragionevole pretendere che ci si prepari a un concorso in 20 giorni, per di più a novembre, un periodo in cui siamo oberati da colloqui con i genitori, consigli di classe, GLO, correzioni, impegni familiari e un carico mentale importante, soprattutto a 54 anni.
Il corpo regge, ma la mente a volte vacilla. E poi, studiare cosa?
Teorie pedagogiche bellissime e interessanti, certo, ma che, in una classe di adolescenti del 2025 (io lavoro nelle secondarie di secondo grado), risultano spesso impraticabili.
Sono arrabbiata e frustrata; mi sento presa in giro e schiacciata da un sistema che, invece di premiare rettitudine, competenza e professionalità, finisce per sminuirle. Quando ho visto il risultato della prova mi sono sentita umiliata: la mia professionalità ridotta a 50 domande a risposta multipla.
A questo si aggiunge il disagio di dover prendere un permesso perché la sede dell’esame era lontana da casa, sottraendo denaro a uno stipendio già esiguo. E ho dovuto assistere al fatto che alcuni colleghi della mia commissione hanno palesemente copiato, addirittura chiedendo di andare in bagno prima dello scadere del tempo.
Mi sono chiesta quale senso abbia tutto questo. Le mie lauree, i miei sacrifici, la dedizione e l’impegno: che valore hanno se continuo a essere precaria perché, per lo Stato, non sono idonea ad entrare in ruolo?
Poi leggo articoli celebrativi di ragazzi di 20 anni già di ruolo dopo aver passato il concorso. Tutti ad applaudire. Ma sinceramente, io mi stupirei del contrario: mi stupirei se ragazzi così giovani, con memoria fresca e nessuna responsabilità, non superassero il concorso. Il problema è che molti di loro entrano in classe senza sapere accedere al registro elettronico, senza sapere come si compila un PDP o come si gestisce una classe di 25 studenti tutti diversi, né come si programma una lezione.
Sono stanca di un sistema che non tiene conto del curriculum di un insegnante, della sua preparazione, della competenza, della formazione continua e dell’impegno costante. Lo Stato non può ridurre tutto questo a 50 domande a risposta multipla.
Ho sempre fatto tutto ciò che mi è stato richiesto, ho sempre rispettato le regole e assunto le mie responsabilità. Ora è il Ministero che deve assumersi le sue e spiegarmi perché, dopo 17 anni, non mi ritiene idonea ad avere una cattedra. Anzi, il Ministero sa che sono idonea, ma ha deciso che la cattedra che mi spetterebbe deve andare a colleghi che hanno sostenuto concorsi più recenti, prolungando ulteriormente la mia attesa.
E vogliamo parlare di ciò che accade dopo il 30 giugno, quando scade il contratto e divento disoccupata? La disoccupazione arriva tardi, e spesso devo farmi aiutare economicamente. Anche se copro posti vacanti, lo Stato trasforma il mio contratto dal 31 agosto al 30 giugno pur di risparmiare, ignorando il fatto che bollette, mutuo e assicurazioni devono essere pagate anche senza stipendio.
Sono stanca. Stanca, avvilita, demoralizzata e arrabbiata.
Mi sento abbandonata dalle istituzioni che dovrebbero tutelarmi.
Come insegnante precaria mi sento sfruttata, spremuta come un limone.
Da precaria devo fare ricorso perfino per ottenere la carta docente: vi sembra giusto? Perché i precari non devono avere diritto alla formazione?
Perché siamo considerati solo forza lavoro con pochi diritti e tutti i doveri dei docenti di ruolo?
Perché il Ministero non pensa a regolarizzare la nostra posizione?
Ho 17 anni di servizio, ho passato due concorsi, sono in GM e idonea PNRR 1. Perché sono ancora precaria e lo sarò ancora per molto tempo?
Perché non ho diritto alla continuità didattica, come i colleghi del sostegno? Se lavoro bene, se gli studenti sono contenti, se mi impegno e il dirigente mi affida responsabilità perché mi ritiene capace, perché non posso garantire continuità agli stessi ragazzi?
Perché ogni anno devo rispondere alla domanda: “Prof, ma lei l’anno prossimo non sarà più con noi?”
E come posso programmare attività a lungo termine se ogni volta devo dire: “Se l’anno prossimo sarò ancora con voi…”?
Di tutte queste domande so già che non avrò risposta.
Nel frattempo, continuo ogni giorno ad andare in classe, perché sono convinta che l’insegnamento sia una vocazione.
Amo profondamente ciò che faccio, che non considero un lavoro ma un atto di fede nel futuro, un impegno etico verso i ragazzi che i genitori mi affidano ogni giorno.
Insegnare non è un ripiego, ma un impegno profondo che unisce professionalità, passione e senso di missione, sebbene spesso sottovalutato sotto il profilo economico e sociale.
Cordialmente,
Prof.ssa Cecchini Roberta
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