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Il prete slovacco che tradì la fede e il vescovo delle rappresaglie: vicende tratte dal libro di Vincenzo Di Michele

Jozef Tiso, prete e politico, nasce nel 1887. Formato tra Nitra e Vienna, sogna l'indipendenza slovacca e guida il Partito Popolare.

A cura di Redazione
12 giugno 2025 16:13
Il prete slovacco che tradì la fede e il vescovo delle rappresaglie: vicende tratte dal libro di Vincenzo Di Michele -
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Per tratteggiare uno dei capitoli più bui e controversi della storia europea, ci siamo affidati a “Le scomode verità nascoste nella II guerra mondiale” di Vincenzo Di Michele. Un libro che non indora la pillola e non chiude gli occhi davanti alle colpe di uomini di Chiesa finiti a sostenere regimi di ferro e fuoco. Da un lato, il volto di un prete, Jozef Tiso, pronto a vendere la propria anima e quella del suo popolo all’ombra nera del nazismo; dall’altro, la figura di Matthias Defregger, il capitano tedesco che ordinò la carneficina di Filetto prima di indossare i panni di vescovo. 

Jozef Tiso: il sacerdote che scelse Hitler

 
Jozef Tiso nasce nel 1887, nella cittadina slovacca di Bytča. Ragazzo pio, animato da una vocazione sacerdotale, si forma nel seminario di Nitra e poi a Vienna, dove la dottrina sociale cattolica gli si imprime addosso come un marchio. Veste la tonaca, si dedica alla carità, ma non smette di coltivare un’idea fissa: la Slovacchia deve scrollarsi di dosso la morsa dell’Ungheria e ritrovare la propria voce. A poco a poco, l’uomo di fede lascia emergere anche l’uomo politico. Il partito popolare slovacco, ispirato alla religione cattolica, diventa la sua nuova chiesa: Tiso sale i gradini, fino a toccare la vetta. Prima leader del partito, poi primo ministro, infine presidente.
 

L’incontro con il Führer e le leggi razziali

 
È marzo 1939 quando Adolf Hitler lo chiama a Berlino. Una convocazione che non lascia spazio a esitazioni: o l’indipendenza fittizia della Slovacchia o la sua spartizione fra Polonia e Ungheria. Tiso, stretto all’angolo, cede. Accetta di proclamare uno Stato slovacco che però è un’illusione, un simulacro dietro cui si nasconde la mano di ferro del Reich. E così, mentre la propaganda canta l’orgoglio nazionale, la Slovacchia scivola subito sotto l’egida nazista. La libertà? Una parola vuota.

Le leggi razziali diventano il nuovo vangelo di Tiso. Gli ebrei slovacchi, che parlano magiaro e sono visti come un corpo estraneo, vengono esclusi a colpi di decreti: niente più case di proprietà, niente più incarichi pubblici, niente più scuola per i loro figli. Perfino la cultura e lo sport diventano un miraggio. Nei luoghi pubblici, la stella di David marchia come un sigillo d’infamia le giacche e i cappotti.
 

La “via graduale” verso l’esclusione

 
Tiso non si nasconde dietro frasi di circostanza: la sua visione è netta. Si dice contrario alla soluzione finale, ma sogna comunque una Slovacchia libera da ebrei. Una “via graduale” per la pulizia etnica: portarli via, metterli alla porta, ricacciarli verso l’Ungheria. Sotto questa coltre di legalismi, la discriminazione si fa sistema. E nel febbraio del 1942, la firma di Tiso si trova in calce a un accordo col demonio: la deportazione degli ebrei nei lager tedeschi.

Nel 1944, l’Armata Rossa avanza e la Slovacchia diventa un campo di battaglia. I tedeschi la invadono, i burattini al potere smettono di contare. Il sogno di Tiso si sgretola come sabbia: fugge in Austria, poi in Baviera, rifugiandosi in un monastero. Ma la fuga ha le gambe corte: catturato dagli Alleati, viene rispedito a Bratislava, dove lo attende il giudizio. Traditore e complice del genocidio. È l’alba del 18 aprile 1947 quando Jozef Tiso sale sul patibolo, un cappuccino accanto a lui e un rosario stretto tra le mani.
 

Matthias Defregger: dal fuoco di Filetto alla mitra del vescovo

 
Mentre Tiso finisce appeso alla forca, un altro uomo di Chiesa, altrove, costruisce la propria parabola. Matthias Defregger, nato nel 1915 in Germania, cresce fra mura di convento e disciplina militare. Figlio di un colonnello, si fa largo nell’esercito tedesco: la sua è la 114a Divisione Cacciatori delle Alpi, addestrata a colpire e a punire. La guerra lo porta in Italia, dove i monti abruzzesi fanno da scenario a un crimine che il tempo non cancellerà.

Il paese di Filetto, provincia dell’Aquila, nell’agosto del 1944 vive giorni sospesi fra la paura e la speranza. I rapporti con i tedeschi sono tesi ma non ancora esplosi. Ma i partigiani attaccano il presidio tedesco, due soldati morti, due fuggiti in sidecar a chiedere rinforzi.
 

La rappresaglia di Filetto

 
Quando i tedeschi tornano, la vendetta è già scritta. Defregger guida l’operazione. Le donne, i bambini e i vecchi vengono separati: da una parte la pietà, dall’altra la carne da macello. Gli uomini validi, quindici in tutto, vengono condotti fuori dal paese, lungo la strada che porta ai Piani di Fugno. I testimoni raccontano di grida, di tentativi di fuga, di preghiere soffocate nel rumore delle mitragliatrici. Alcuni si fingono morti, respirano sotto cumuli di corpi, vedono il mondo annerirsi sotto il fumo dei roghi. I soldati tedeschi bruciano i cadaveri in una stalla, e poi appiccano il fuoco anche alle case: Filetto diventa un deserto di macerie.
 

L’assoluzione e l’oblio

 
La guerra finisce, ma la vita di Defregger riprende come se nulla fosse. Torna agli studi di filosofia e teologia, si inginocchia di nuovo davanti all’altare. Nel 1949 è ordinato sacerdote dal cardinale Faulhaber. Gli anni passano, le vesti da soldato lasciano il posto a quelle vescovili: nel 1968 diventa vescovo ausiliare a Monaco. Ma la verità è come un fiume carsico: non smette mai di scorrere.

Nel 1969, un’inchiesta del settimanale tedesco “Der Spiegel” riporta a galla il massacro di Filetto. Le testimonianze, i nomi, i luoghi: tutto viene ricostruito pezzo a pezzo. Anche la Procura di Francoforte apre un fascicolo, ma la giustizia tedesca si ferma davanti alla parola d’ordine di sempre: “esecuzione di ordini superiori”. Nel 1970, Defregger viene assolto in istruttoria. Per la legge, non c’è crudeltà, non c’è malvagità: solo la cieca obbedienza di un soldato.

Così, l’uomo che ordinò la carneficina di Filetto finisce i suoi giorni senza mai pagare il conto con la storia. Muore nel 1995, ottant’anni compiuti, in un letto di Monaco.
 

Un epilogo che non consola

 
Il capitolo di Vincenzo Di Michele non fa sconti e non cerca consolazioni. Ricostruisce la doppia faccia della Chiesa e della guerra, laddove la fede si piega alla logica dell’odio e la croce si trasforma in un simbolo violato. Racconta il prete che si fece carnefice e il vescovo che prima fu boia, con la lucidità di chi sa che la verità, per quanto scomoda, va comunque messa in luce.
 
Ecco allora la storia di Jozef Tiso e Matthias Defregger: due percorsi diversi ma intrecciati dalla stessa ombra. Due uomini che scelsero la via più comoda – o più vile – quando il mondo bruciava e la dignità umana chiedeva voce. Le loro storie restano un monito, un monito che non conosce oblio.
 

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